Noi, figlie di immigrati

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Mi chiamo Asmaa, ma si dice Esmé, sono nata a Carpi in una famiglia marocchina e sono un’adolescente come tutte le altre. Anzi, forse no, perché vivo a cavallo di due culture diverse.

Perfettamente integrata, non ho mai subito forti pregiudizi o discriminazioni da parte dei carpigiani; al contrario, invece, la comunità marocchina spesso mi lancia qualche occhiata di traverso per il mio aspetto occidentalizzato.

I pregiudizi, quelli sottili, sono sempre all’ordine del giorno. Domande come Perché non porti il velo se sei araba? I tuoi genitori non ti costringono? racchiudono preconcetti sbagliati e offensivi, frutto di una generalizzata ignoranza.

Nella mia famiglia la questione del velo non è mai stata affrontata e io non ho mai pensato di metterlo. Anche la 17enne Nadia, marocchina, ha le idee chiare: “non porto il velo perché non ne sento il bisogno”. “Pur essendo nata in Italia, non credo mi sentirò mai pienamente integrata in questo Paese” rivela Sabrine, tunisina. “Sin da quando frequentavo la scuola materna ho subito innumerevoli atteggiamenti ostili da parte dei miei compagni: ero una bambina con la pelle scura e coi capelli ricci e i bambini non volevano a giocare con me. Quei momenti della mia infanzia hanno condizionato il mio atteggiamento nei confronti delle persone, ma intorno ai 16/17 anni, ho imparato ad amare le mie origini, ad andarne fiera e a non prestare attenzione a chi pensa il contrario”.

“Mi sento ben integrata – racconta invece Nadia – sin da bambina ho sempre avuto intorno persone con la mente aperta che mi hanno aiutata ad adattarmi. Se mi fanno qualche domanda legata alla mia religione o alla mia cultura non mi dà fastidio, in fondo la curiosità è lecita”. Nati e cresciuti in un contesto completamente diverso dal nostro, con comportamenti e regole sociali differenti, i genitori non sempre comprendono le nostre decisioni o i nostri atteggiamenti e le incomprensioni sono dietro l’angolo. “In famiglia non parlo quasi mai di argomenti personali, resto sul generico”, racconta Nadia, mentre Sabrine ammette di avere coi genitori “un bellissimo rapporto, non potrei chiedere di meglio”. Per quanto riguarda i rapporti di amicizia, “io ed Asmaa – prosegue Nadia – usciamo e abbiamo rapporti più stretti con i nostri coetanei carpigiani”, mentre Sabrine è più legata a quelli tunisini: “ci sentiamo più vicini dal punto di vista culturale – spiega – viviamo le stesse situazioni in famiglia e condividiamo le medesime difficoltà”.

Un vantaggio che unisce i figli degli immigrati è senza dubbio il bilinguismo. Sappiamo perfettamente due lingue e in casa si parla un miscuglio fra le due: “se i miei mi dicono qualcosa in arabo, io rispondo in italiano, magari buttandoci in mezzo qualche parola araba. E’ il nostro marchio di fabbrica” sorride Sabrine. Uno dei problemi che sperimentiamo maggiormente noi figli di immigrati è un senso di mancata appartenenza. E’ come se non appartenessimo veramente a nessun luogo: in Italia sei considerata una straniera, mentre in Marocco, nel mio caso, un’italiana.

Il cibo, invece, è una vera delizia: tajine, rfisa, cous cous… sono tutti piatti che mangio almeno un giorno alla settimana e che gli italiani dovrebbero assaggiare almeno una volta nella vita. “Niente supera le pietanze nordafricane – ride Sabrine – se fosse per me mangerei solo quelle, ma richiedono lunghi tempi di preparazione e, quindi, spesso, in tavola si opta per il cibo italiano”. Le vacanze offrono sempre l’occasione per tornare nella madrepatria delle nostre famiglie: “fosse per me – confessa Sabrine – non mi comporterei in modo diverso, ma quando vado in Tunisia devo evitare certi argomenti e comportamenti per non incorrere in problemi”. “Quando sono a Carpi – sorride Nadia – mi sento più marocchina e quando vado là in vacanza più italiana. Vivo a cavallo di due culture e questo, lo ammetto, è un po’ faticoso. Sarà per questo che il mio futuro lo immagino in un terzo paese dove poter costruire la vita che desidero”.

Asmaa Chaouki

 

 

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